Il basket italiano ha un’isola felice, un posto dove tutto è possibile. A Capo d’Orlando, che non a caso è su un’isola, la Sicilia, vivono 13 mila anime d’inverno ma ben 30 mila d’estate; località turistica, vero, ma non solo. Capo d’Orlando, da ormai più di 10 anni, è entrata nella mappa nazionale per la sua squadra di basket, l’Orlandina, diventata a buon diritto la squadra più rappresentativa della regione. Questa è la quinta stagione della sua storia in Serie A: dopo il triennio 2005-2008 interrotto forzatamente per inadempienze economiche, la società è ripartita dalla Serie C e, anche con un pizzico di fortuna, è al secondo anno consecutivo nella massima serie.

Ogni favola ha un inizio e un punto di svolta: l’inizio è il 1978, anno di fondazione; le svolte possono essere considerate due: la prima nel 1996, quando dopo una retrocessione in Serie c2 con una vittoria su 30 incontri, Enzo Sindoni decide di rilevare la società. La seconda, surreale e magica allo stesso tempo, due stagioni dopo: dopo due promozioni in due anni, Sindoni acquista Alessandro Fantozzi, ex playmaker di Livorno e della Nazionale. E’ amore a prima vista! Le 5 stagioni passate da Fantozzi a Capo sono difficilmente descrivibili per impatto ed empatia, trascinandola in LegaDue in poche stagioni. A sostituire le parole è il gesto innovativo dell’Urea, che decide di dedicare il palazzetto appena costruito ad un suo giocatore, Fantozzi, dopo solo due anni di permanenza: in genere una struttura si dedica ad una persona deceduta o ad una leggenda, ma mai ad un giocatore, ma Capo d’Orlando è diversa.

Ed è diversa anche perché il destino le riserva un percorso da montagne russe: retrocessione in B d’Eccellenza nel 2003, Capo si salva ai play-out contro Castenaso ed ottiene, con un ripescaggio mai così sorprendente, la possibilità di giocare in LegaDue. Ed è nel 2005-2006 che l’Upea, guidata dallo sceriffo Giovanni Perdichizzi, compie una cavalcata vincente che la porta in Serie A, guidata da McIntyre (proprio lui), la vecchia volpe Hoover, Brian Oliver e Howell. Dopo due salvezze sofferte in due anni, Perdichizzi e Capo si separano. In Sicilia arriva Meo Sacchetti, simbolo di un gioco frizzante ed energico. Ma la famiglia Sindoni deve ancora compiere il suo capolavoro. Serve un play-maker, possibilmente con le caratteristiche volute da Sacchetti: arriva IL play-maker, tale Gianmarco Pozzecco. Con un supporting cast solido (Wallace, Diener, Slay, Howell), la squadra di Meo sorprende tutti, è a lungo nelle primissime posizioni, arriva sesta in campionato salvo poi perdere ad Avellino in 3 gare ai quarti. A fine gara-3, Pozzecco lascia il basket giocato dopo una stagione entusiasmante.

Dopo l’esclusione dalla Serie A e la ripartenza dalla C, Capo passa 3 stagioni di assestamento, riuscendo comunque ad arriva nella vecchia B1. Arrivato il ripescaggio in LegaDue, la stagione 2012-2013 parte nei peggiori dei modi: 0-6 di record e Massimo Bernardi viene esonerato. Sindoni, abituato a decisioni sorprendenti, come affidare la carica di GM al figlio Giuseppe (uno dei migliori dirigenti in Italia, senza dubbio), decide di assumere come allenatore… Pozzecco! Proprio lui, il più improbabile. Ed anche qui ci vede lungo: pronti via e vittoria a Jesi, chiuderà con un record di 12-10. Pozzecco a Capo si trova bene e Capo (scusate, CaPoz) adora Pozzecco. Ed è proprio grazie a lui che l’Upea può disputare la stagione successiva con autentici pezzi da novanta: Sandro Nicevic ma sopratutto Gianluca Basile e Matteo Soragna.

E’ grazie a loro che Capo scopre di essere terapeutica per i giocatori ed è questo il punto di partenza della famiglia Sindoni per compiere un mercato diverso. La stagione è esaltante, Capo d’Orlando arriva in finale play-off, sconfitta 3-0 da Trento; ma arriva il ripescaggio, è Serie A. Ed arriva un altro giocatore di esperienza, Pecile: anche se Pozzecco è stato salutato, è salvezza con Griccioli. In questa stagione, salutato Soragna, sono arrivati Ilievski e Jasaitis, autentici colpacci per una squadra con pochi soldi ma tante idee. Ed è qui che cerchiamo di entrare nell’ambiente orlandino: cosa porta un Basile, un Nicevic, un Ilieviski, un Pozzecco, uno Jasaitis, gente con esperienza, con richieste di mercato probabilmente migliori, a scegliere un paese da 13000 abitanti di un’isola come la Sicilia, lontana dal glamour e da riflettori importanti?

E’ stato proprio Enzo Sindoni due anni fa su “La Repubblica” a spiegare come è riuscito a convincere Basile: “Abbiamo invitato per due giorni lui e sua moglie a Capo d’Orlando, gli abbiamo fatto conoscere la nostra terra, il nostro progetto. Ai giocatori forse non possiamo offrire il miglior ingaggio della loro carriera, ma la miglior qualità della vita quella sì”. E’ proprio questo a portare giocatori abituati alla ribalta in un piccolo paesino: al di là dei soldi, è la sensazioni di tornare alla normalità, di vivere momenti sereni, di andare al bar e poter parlare con i fedelissimi tifosi dell’Upea (da quest’anno targata Betaland), di poter portare a spasso il cane sul lungomare, di poter andare al mare anche ad Ottobre e ad Aprile. E trovatelo voi un altro posto dove il giocatore più carismatico della squadra, a 40 anni, decide di portare con sé a pescare il suo playmaker che ha la metà dei suoi anni. Come è bello il basket, come è bella Capo d’Orlando.

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