Due sembrano essere le particolarità, se vogliamo le anomalie, che rendono unico il rugby. La prima è il concetto del mutuo sostegno (tra portatore di palla e giocatori in sostegno). Il portatore di palla nel momento in cui ha la palla in mano è leader di sé stesso e degli altri. E’ lui che prende le decisioni e ha il dovere di cercare quella migliore, in quanto non paga solo lui l’errore, ma anche i suoi compagni di squadra. Deve quindi avere la concentrazione e l’attenzione necessaria per essere in quel momento il miglior leader possibile di se stesso e degli altri. Diverso è il caso del giocatore che va in sostegno. Andare in sostegno al portatore di palla che fa la scelta giusta è facile, è andare in sostegno a chi non fa la scelta migliore che è complicato. Allora che si fa? Lo si manda a quel paese? Si discute se la scelta è giusta? O si va in sostegno comunque? Su che basi si da il sostegno al compagno che ha fatto la scelta? Lasciamo perdere la qualità della scelta, il compagno ha deciso. Ed ecco che, andando in sostegno, viene fuori la vera essenza e la qualità della persona, non del giocatore, della persona. Perché ci vuole capacità interpretativa, ci vuole fede, ci vuole generosità, ci vuole una grande dose di determinazione. Questi sono i valori che vanno esportatati, i valori sulla base dei quali poi l’accettazione delle regole, il rispetto dell’arbitro diventa consequenziale, in quanto la realtà deriva dalla qualità morale con cui noi prendiamo le decisioni. Alla fine poi l’unico giudice che abbiamo siamo noi, non dobbiamo dare spiegazioni a nessuno, è una questione di non mentire a noi stessi e di guardare dentro il nostro cuore nel modo migliore.

Tutto ciò ci porta alla seconda particolarità di questo sport: il rugby esclude l’alibi. Noi viviamo in una cultura che ci abitua ad avere sempre il piano B in tasca per giustificare i nostri insuccessi. Il rugby esclude l’alibi. Nel rugby vince sempre il più forte. Nel calcio (che è uno sport nobile tanto quanto il rugby, perché si impara parecchio da tutti gli sport) può succedere che vai in attacco, prendi tre pali, una traversa, ti negano un rigore, ti prendono in contropiede, un difensore commette un autogol, perdi 1 a 0, vai a letto e guardi per aria senza riuscire a darti spiegazioni. Nel rugby questo non accade, vince sempre il più forte, “on that day” (in quel giorno) come dicono gli anglosassoni, non sulla carta, in quel momento, cioè devi dimostrare di essere il più forte.
E allora qui veniamo ad un imperativo morale che spesso ignoriamo: l’esplorazione dei nostri limiti. La cultura dell’alibi inibisce l’esplorazione dei nostri limiti. Ma quando diamo il meglio di noi stessi e siamo superati da qualcun altro perché ha dimostrato di essere stato più bravo, ci viene spontaneo andare da lui e dirgli “well done”. Perché accettiamo il fatto che a questo mondo ci sia una persona migliore di noi in qualcosa, anche se abbiamo dato tutto noi stessi. Ma non si può che stare sereni, perché sappiamo di aver esplorato fino in fondo tutte le nostre potenzialità. Il problema è quando non esploriamo i nostri limiti, quando a priori abbiamo sempre il piano B in tasca, perché è più facile vivere nell’alibi e trascorrere la vita in maniera sottodimensionata.

Per essere i migliori dobbiamo meritarcelo, dobbiamo meritarcelo ogni giorno, e allora questo rispetto delle regole è qualcosa che appartiene certamente ai valori del rugby, ma sta a chi segue il rugby in particolare mantenerli alti cercando possibilmente di esportarli nella società civile e non vendersi come unto dal signore e quindi diverso. Avere rispetto delle regole, è una conseguenza culturale, non è qualcosa che ti arriva per grazia infusa, è l’accettazione di noi stessi nell’esplorazione dei nostri limiti.