Chissà se Gianluca Vialli ci pensa ancora a quella notte. Wembley, 20 maggio 1992. Sui piedi del centravanti della Sampdoria due occasioni nitide per alzare la più bella delle coppe. Quella dei campioni. Vialli le spreca, Koeman non perdona e la Coppa dei Campioni va per la prima volta al Barcellona. Chissà se oggi Gianluca ci pensa ancora. Ogni tanto racconta di quella notte: gli occhi diventano lucidi, anche se qualche anno più tardi vincerà la Coppa con la Juventus. Perché vincerla con la Sampdoria di Boskov sarebbe stata un’altra cosa. Sarebbe stata un’impresa irripetibile.

Da oggi, noi sportivi, siamo orfani di uno dei più grandi protagonisti del nostro calcio. Di quello vincente, quello degli anni ’90. Le squadre italiane facevano razzie di coppe europee, rampanti imprenditori spendevano miliardi (di lire) per prendere i migliori stranieri in circolazione, gli stadi erano pieni e le pay tv non esistevano. Il Milan aveva i tre olandesi, l’Inter i tre tedeschi, il Napoli Maradona e la Sampdoria Vujadin Boskov. A chi ricorda solo i suoi aforismi ricordo che Vujadin è stato un grandissimo allenatore, saggio e pratico al tempo stesso.

Era un maestro di calcio. Sapeva che i giocatori non erano tutti uguali, lasciava Mancini libero di scegliersi il proprio ruolo in campo mentre chiedeva a gente come Fausto Pari e Beppe Dossena di correre anche per gli altri. A Genova aveva creato un gruppo eccezionale, affidandosi a professionisti come Mannini, Vierchowood e Tonino Cerezo. Tanto, prima o poi, ci avrebbero pensato quei due davanti: Vialli e Mancini. Così Boskov vinse uno degli scudetto più belli della storia del nostro campionato. E non solo.

La Coppa delle Coppe, la Coppa Italia, la Supercoppa italiana e quella sfortunatissima finale. Non solo Sampdoria. Boskov ha avuto il merito, qualche anno più tardi, di far esordire in serie A un certo Francesco Totti. Evidentemente di numeri 10 se ne intendeva. Le sue citazioni celebri passeranno alla storia. Era uno psicologo, un filosofo, uno che sapeva accettare l’errore dell’arbitro e che lasciava pensare a chiunque che il vero allenatore della sua squadra era Roberto Mancini.

Oggi Roberto può raccontarvi come è diventato un signor allenatore. Grazie agli insegnamenti di quale grande maestro. Quello che sapeva benissimo chi doveva correre e chi doveva decidere le partite. Quando si doveva attaccare e quando si doveva difendere. Anche quello che sapeva quando andavo bene uno 0 a 0, che sembra essere diventata un’eresia. Quello che non aveva paura di dire a tutti chi aveva sbagliato, anche quando si trattava di Pagliuca. Vujadin ci mancherà. Non solo il maestro di aforismi, ma soprattutto il maestro di calcio.