Mentre assistete ad una partita del Brasile fate finta di non vedere il colore delle maglie e cercate di ignorare i nomi dei calciatori. Soffermatevi soltanto sulle movenze dei singoli, sullo sviluppo del gioco e sulla disposizione tattica.
Poi andate a sfogliare i vecchi almanacchi del calcio; ripensate a Garrincha-Didì-Vavà-Pelè-Zagallo, a Jairzinho-Gerson-Tostao-Pelè-Rivelino, a Romario-Bebeto e a Ronaldo-Ronaldinho-Rivaldo. Ricordate i dribbling mortiferi dei funamboli, i doppi passi e gli elastici, le accelerazioni e il futbol bailado: estetica allo stato puro srotolata sui manti erbosi di tutto il mondo.
Verrebbe da dire che la formazione che gioca in verdeoro nel Mondiale dei Mondiali non può essere il Brasile. Invece nel Mondiale della Globalizzazione (cit. Cristiano Carriero) sono proprio i Pentacampioni quelli che soffrono, pur giocando in casa, contro la Roja agli ottavi di finale: stavolta soltanto la Dea Bendata ha evitato un’altra tragedia sportiva in stile Maracanazo.
La squadra di Scolari è lontana parente del Brasile che abbiamo conosciuto nel corso della storia, sia nel gioco che nel talento dei singoli. Finora ha mostrato grinta, voglia di vincere, tanto carattere e abnegazione, in stile Germania, e poco altro.
Il reparto migliore è sicuramente la difesa, dove la fisicità e il temperamento del duo Thiago Silva-David Luiz rimanda a coppie di difensori di italiana memoria.
Il centrocampo non annovera fenomeni del calibro di Falcao o Socrates: un po’ all’inglese, Fernandinho, Luis Gustavo e Ramires si limitano a fare da frangiflutti davanti alla difesa, badando al sodo e poco allo spettacolo.
Il reparto d’attacco ricorda quello del Portogallo post Eusebio: l’inconsistenza di Fred e Jo è da brividi se paragonata alla vena realizzativa e allo strapotere tecnico di Pelè, Tostao, Zico, Romario e Ronaldo.
Così il Brasile ‘globalizzato’ lascia iniziare il gioco ai difensori centrali, non trova mai la conclusione su azione manovrata, è pericoloso quando riparte in contropiede o sfrutta i centimetri sui calci da fermo.
Questo Brasile un po’ italiano e un po’ portoghese, un po’ tedesco e un po’ inglese, è la squadra più europea del Sudamerica.
Teniamoci strette le lacrime dell’acchiappasogni Julio Cesar, le sporadiche magie di Neymar e la classe di Thiago Silva, altrimenti di questo Brasile non resta nient’altro che la casacca verdeoro.