“La Santiago della mia infanzia aveva ambizioni da grande città, ma il cuore di un paesello”, scriveva così Isabel Allende (nipote di Salvador, leader socialista cileno morto nel golpe militare che portò al potere Pinochet in piena guerra fredda) della propria città. E Arturo Vidal viene da lì. Da quella città, a tratti in bianco e nero, a tratti in technicolor, per citare ancora la scrittrice de “Il mio paese inventato”.

Arturo Vidal da simbolo della Juventus di Antonio Conte, e di tre scudetti, diventa la bandiera di una popolazione che cerca riscatto. E non è (solo) quella cilena. Ma tutta quella parte di mondo che non ha da mangiare tutti i giorni. Come lo stesso Vidal a 13 anni. Lo ha raccontato lui a Gazzetta Tv. Quando sua madre non lavorava non si mangiava nulla. Ed era il 2000. Il nuovo millennio, il progresso, un quadro che qualcuno sognava fosse addirittura come il futuro di Star Wars. In un lampo è diventato un presente cupo, scuro. La fame nel mondo nel 2000. Quasi come se la contraddizione in termini non ci fosse.

Vidal viene da lì. Da quella parte di mondo in cui non tutti hanno da mangiare. Da una famiglia abbandonata dal padre, scappato con un’altra quando Arturo aveva 5 anni. E quando Vidal, per come lo conosciamo noi, doveva ancora nascere. Prima della cresta, dei tatuaggi, di Leverkusen, e del mondo del calcio. Dei miliardi, e di quelle cifre mostruose. Pazzesche. Come pazzesca era la sua vita precedente. Quella con 5 fratelli, e solo la mamma (Jacqueline) a lavorare. L’intervista di Vidal riporta l’uomo Arturo ad una dimensione addirittura più umana. Quasi come se fosse uscito da quello schermo, o da quella vita per tutti così distante, per raccontare il dolore di un ragazzo che a 13 anni nel 2000 ha sofferto gli scempi di un mondo per cui non aveva responsabilità. C’è una parte di Arturo che sarà sempre come la sua Santiago, tra terremoti e povertà. Una parte in technicolor, ed una in bianco e nero.