“La classe non è acqua, la classe è Kobe Bryant”. Questa frase pronunciata da Flavio Tranquillo durante una telecronaca dei Los Angeles Lakers mi è rimasta impressa e a distanza di anni risulta sempre attuale. Perché la classe, quella cristallina, non la lavano via il tempo, gli acciacchi, gli infortuni, la solitudine. Già, la solitudine di Kobe di trovarsi in una squadra ampiamente inferiore al suo livello e alle sue aspettative.

Eppure lui c’è e stanotte ha superato un record storico: quota 32,000 punti in NBA. 32,001 ad essere pignoli, perché Kobe, nell’azione del canestro vincente, si è guadagnato pure il tiro libero e l’ha realizzato. Per la cronaca, i Lakers hanno battuto Atlanta 114-109 e già questa sarebbe una notizia, vista la scarsa attitudine alla vittoria (eufemismo) dei gialloviola in questo avvio di stagione: 2 vinte e 9 perse, peggior record a Ovest, battuti ad Est solo dal disastro Philadelphia (0-10). Come se non bastasse, il promettente rookie Julius Randle, prima pietra dell’auspicata ricostruzione, settima scelta all’ultimo Draft, si è fratturato la tibia destra proprio all’esordio in NBA, terminando la stagione prima ancora di cominciarla.

Ed è curioso come questo traguardo venga raggiunto pochi giorni dopo il superamento di un altro record, stavolta non proprio esaltante però: il 16 novembre il Black Mamba aveva infatti superato John Havlicek nella classifica dei tiri tentati e falliti in NBA: 13,418, sebbene questa classifica annoveri comunque gente come Michael Jordan e Kareem Abdul-Jabbar. E a tal proposito lo stesso Bryant aveva dichiarato: “Preferirei non forzare, ma non puoi semplicemente sederti e stare a guardare mentre di fronte a te si consuma un crimine”. Abbastanza eloquente, come a dire: con chi sono finito? E in effetti, se le migliori opzioni sono Boozer, Lin e Jordan Hill, è lecito riconoscergli un’attenuante.

Terra bruciata dunque, dove il #24 è l’unica pianta sempreverde. La sua media in questa stagione è di 27 punti a partita: non basta, ma è l’unica nota positiva dei Lakers attuali, l’unica costante rimasta ai tifosi. Ai quali presto non resterà che celebrare il sorpasso di Bryant nei confronti di MJ e il raggiungimento della terza posizione in questa speciale classifica all-time guidata da Abdul-Jabbar e Malone. L’eterno paragone che ritorna. Jordan è a quota 32,292: mancano 292 punti per superarlo. E se spesso i numeri dicono molto, in questo caso stiamo parlando di due giocatori sì molto simili, a tratti identici nei movimenti e nei gesti, ma così forti e appartenenti a due momenti contigui ma allo stesso tempo diversi della pallacanestro, che paragonarli è inutile ancor prima che ardito. Un po’ come chi cerca da anni di comparare Messi e Maradona. Non serve.

Così come non serve chiedersi se l’unico obiettivo di Kobe Bryant sia ormai giocare per se stesso e per i suoi record: superare Jordan non capita tutti i giorni, ma chi ha imparato a conoscerlo, ascoltare le sue interviste, a seguirlo dopo il brutto infortunio, sa che non è così. In realtà c’è una cosa per cui Kobe vive ed è sì raggiungere Jordan: ma non riguarda punti e record, ma il dover scomodare l’altra mano per poter mettersi un altro anello al dito.