Il cervellotico sistema dei preliminari di Champions League, se non altro, ha un merito.
Se per le formazioni dei campionati più titolati è passo rischioso, soprattutto per le italiane storicamente indietro di condizione, per le formazioni dei tornei minori (quelli dal 15esimo posto in giù nel ranking Uefa), è occasione di grande visibilità. E anche un’opportunità per entrare nella storia.
Lo è soprattutto per quelle formazioni ambiziose, spesso quelle dell’est europeo, con presidenti dal portafoglio ampio e dai desideri sconfinati.
E’ successo già con il Bate Borisov, è successo con il Viktoria Plzen, è successo con il Ludogorets. In qualche modo, è già accaduto anche se in altre competizioni con l’Anzhi.
La storia del Ludogorets è cambiata ieri: con i rigori thriller contro la Steaua, con la favola di Moti che vi raccontiamo qui, con la qualificazione alla fase a gironi. O forse è cambiata nel 2010 quando Kiril Domuschiev, uno dei più ricchi imprenditori bulgari, ha comprato il club portando in dote una solidità economica da oligarca: possiede il 70% dell’intera vecchia flotta marina bulgara, due società farmaceutiche Biovet e Huvepharma, è proprietario dei tre terminal commerciali del porto di Burgas, uno dei più importanti scali merci del Mar Nero, spende in una finestra di mercato quanto le altre società bulgare messe insieme in tre anni. Nel 2011 voleva presentarsi con un grande colpo, ci provò con il parmense Crespo. Ha messo insieme una squadra internazionale: finlandesi, francesi, portoghesi, colombiani, malgasci (del Madagascar…), spagnoli, brasiliani, rumeni, olandesi, turchi, serbi e anche bulgari.
Tanti soldi, ma quanti soldi? 2,5 milioni di euro. Comunque quanto una squadra medio-piccola del campionato inglese, tedesco, spagnolo o italiano.
Il problema di queste storie, belle da raccontare, semmai è un altro: i risultati. Pochi. Difficilmente si supera la fase a gironi. Quasi mai. E, anzi, quasi sempre, si ricade nell’anonimato. Ovvero: gli imprenditori e gli oligarchi dell’est che investono in patria sono ricchi, ma non abbastanza da investire in club esteri. E, prima o poi, si stancano presto. Perché il campionato bulgaro, con tutto il rispetto, senza la vetrina europea non vale un campionato importante. All’Anzhi il caso più eclatante.
E, allora, accade che il riciclo di queste formazioni da raccontare, immortalate nelle notti europee dei preliminari di Champions, è frequente. Il ricordo sbiadisce, c’è sempre un nuovo club da raccontare, un nuovo club di cui parlare. Bene, benissimo per il calcio totale, quello della Uefa, quello da esportare e allargare sempre più.
Nel 1999 la Uefa rivoluzionò la Coppa Campioni – Champions League per contrastare la nascente Superlega e aprire alle terze e quarte classificate. Con il risultato di azzerare l’interesse sulle altre competizioni europee.
Risultato a 15 anni di distanza: dominio di Spagna, Germania e Inghilterra che ne hanno tutte quattro, soffre soprattutto l’Italia costretta a portarne ancora due, non ci sono Paesi storici come Scozia, Romania, Austria, Danimarca, cresce il Portogallo che prima di altri ha capito l’importanza (e il nuovo ruolo dell’Europa League), volano i Paesi emergenti. Che però non emergono mai.
E, allora, la domanda è sempre la solita: giusto suddividere i preliminari tra squadre campioni del proprio Paese e squadre piazzate? Il rischio è quello di far emergere tre super potenze e poi livellare verso il basso con squadre che sicuramente non possono competere.
Un dato: c’è il Malmoe, coefficiente europeo poco superiore al 6 (il Real Madrid è a 161), ha eliminato il Salisburgo, coefficiente europeo superiore a 46. E’ la strada migliore per unire l’Europa del calcio?