La maratona non è solo uno sport, è una disciplina interiore, un patto con se stessi, una scoperta continua. I 42 Km e 195 metri sono sinonimo di immane fatica e di impresa estrema, simboleggiano la porta ascensionale che divide il percorso passato e quello futuro all’interno della propria esistenza. Pensare di affrontare a viso aperto la maratona e tutto ciò che ne consegue rappresenta “la sfida” e correre quella di New York aggiunge il significato simbolico del nuovo mondo, l’innovazione, il progresso, il passo al di là dell’oceano.

La maratona di New York nasce nel 1970 ed è la più partecipata al mondo con gli oltre 40000 atleti che ogni anno invadono le strade della Grande Mela. Non disputata solo nel 2012 a causa dell’uragano Sandy, il 2 novembre 2014 raggiungerà quota 44 edizioni. A parte i pochi atleti di livello internazionale che possono contare su un invito ufficiale, gli aspiranti maratoneti devono incrociare le dita e sperare di venire estratti attraverso una lotteria, oppure iscriversi tramite associazioni di beneficienza o agenzie internazionali di viaggi sportivi.

Il fascino della maratona di New York raccoglie tanti e profondi significati. Manager, imprenditori, studiosi, gente dello spettacolo e persone di ogni genere e tipo accorrono da ogni parte del mondo: questa corsa è la metafora della vita e dell’esistenza. Non un semplice evento agonistico ma un imperdibile appuntamento con se stessi, un inevitabile confronto con il proprio inconscio per l’affermazione del mito Nietzschiano del superuomo. Correre la maratona di New York rappresenta l’occasione, l’occasione della vita, l’occasione di rinfacciare a se stessi la propria forza interiore. Fu per primo Filippide che, con la sua leggendaria corsa dalla piana di Maratona alla città di Atene al fine di annunciare al popolo l’attesa vittoria sui Persiani, associò alla folle impresa il significato della vittoria stessa.

D’altro canto, il percorso per arrivare alla maratona è esso stesso una maratona: è necessario allenare il nostro corpo a sopportare la fatica, a reggere la solitudine e a reagire alle difficoltà. Bisogna fortificare il proprio organismo con l’allenamento fisico, nutrirlo e idratarlo per metterlo nelle condizioni fisiologiche ottimali. Fermarsi prima del previsto in un tale contesto non va necessariamente ad iscriversi nel libro delle sconfitte, ma lascia spazio ad una necessaria pausa di riflessione: i tempi non sono ancora maturi, c’è bisogno di lavoro duro e abnegazione, di dialogo con sé stessi, di riflessione sul proprio io dominante, sulla propria capacità di soffrire.
L’esercizio di chi si pone come obiettivo la maratona di New York è sicuramente di accrescimento interiore, senza dimenticare, però, il vincolo inquietante e onnipresente del cronometro. A prescindere dal talento, dall’esperienza e dal grado di allenamento, chiunque si cimenti con questa distanza lo fa sempre contro il proprio personal best, dunque contro se stesso: bisogna resistere e coprire quei 42.195 metri nel più breve tempo possibile. Lavorare ogni giorno per resistere al ritmo di gara prefissato. Resistere, resistere a qualunque costo. Lasciarsi trascinare dalle endorfine e tenere l’andatura costante: è l’unica cosa che importa.

Chi affronta la maratona di New York va incontro alla sua condanna e alla sua ragione d’essere. Perché quando corri sul ponte di Queensboro che porta verso Manhattan, uno dei punti più temuti e faticosi del percorso, non è più la mente a pensare ma è tutto il corpo a lanciarti dei segnali. Perché quando attraversi Central Park, a pochi chilometri dall’arrivo, senti la folla che ti acclama e ti trascina al traguardo. Lì capisci che la maratona è una forma di poesia fruibile solo da chi l’abbraccia. Così, l’ebbrezza di tentare l’impresa, la voglia di sconfitta del passato e al tempo stesso di rinascita si tramutano in un attimo in lacrime di gioia, di liberazione, di euforia. Lacrime di chi ha voglia di urlare ma non ne ha la forza. Lacrime di chi ci ha sempre creduto. Lacrime di chi avrebbe potuto perdere tutto in pochi attimi, ma non ha mai perso se stesso. Podio a parte, è di sicuro la più grande vittoria che si possa ottenere.