Mentre qui pensiamo a rinnovare il calcio con la figura di Carlo Tavecchio, il mondo pallonaro italiano va a rotoli. Non è una frase costruita e scritta per mettere in risalto le differenze tra l’Italia e il resto degli altri Paesi europei. Tralasciandole le questioni che riguardano la Federazione Italiana Giuoco Calcio, in quest’ultima domenica di luglio, afosa almeno dalle mie parti, parliamo del marketing dei vari club della nostra Serie A. Il merchandising, infatti, è l’anello debole delle società che compongono il calcio tricolore. Basti pensare che il Real Madrid, dopo l’acquisto di James Rodriguez, pagato 80 pali (sarebbero milioni, ma io voglio cercare sempre alternative) ha venduto circa 350.000 maglie con il numero 10 del fantasista colombiano, guadagnando la metà del prezzo pagato al Monaco.

La casacca dei “Blancos”, infatti, costa la bellezza di 120 euro che, moltiplicati al numero del prodotto venduto, fattura una cifra importantissima per le classe del club. Adesso, non voglio fare il moralista della situazione, ma in Italia queste cifre le possiamo sognare solo sotto effetto di alcolici. Perché? Semplice, le grandi aziende sportive puntano a mettere il risalto il loro marchio in società di fascino e che hanno grande appeal. Esempio: compagini come Juventus, Milan, Inter, Roma, Napoli, e via discorrendo, non dispongono di una grande organizzazione tale da incassare del denaro fondamentale che potrebbe essere reinvestito. Poi c’è il problema “merce contraffatta”, che esiste anche in Spagna, Germania, Inghilterra e Francia (ho citato i maggiori campionati), ma vissuta in maniera totalmente diversa nella nazioni appena elencate.

Questione anche di cultura, dove la maggior parte dei tifosi di Barcellona, Paris Saint Germain, Manchester United preferisce acquistare la maglia del loro idolo preferito allo Store ufficiale del club, anziché dal venditore ambulante che si trova in strada. Anche questo declino, comunque, è stato causato dalla pessima gestione del calcio italiano nell’ultimo ventennio. Pochi “top player”, spettacolo al limite della sufficienza e guadagni sempre giù. Ma cosa ci possiamo aspettare da una federazione che sceglie un “ragazzotto” di 70 anni per il rilancio dell’Italia pallonara? Semplicemente niente.