Sabato 14 aprile 2012, ore 15.31: è questo il tragico momento in cui il calcio, allo stadio “Adriatico” di Pescara e poi in tutta Italia, si è fermato, come il cuore di Piermario Morosini. Era un sabato pomeriggio grigio e piovoso, quando il giovane 25enne calciatore del Livorno, ex promessa del calcio italiano e dell’Under 21 azzurra, si accasciò al suolo nel bel mezzo di una partita di serie B. Vana la corsa presso l’ospedale “Santo Spirito” di Pescara, inutili i tentativi di rianimazione susseguitisi per 90′, quasi per un amaramente ironico gioco della sorte, il tempo esatto di una partita. Il calcio italiano, a due anni dal funesto accaduto, sta ancora cercando di metabolizzare quanto accaduto a questo ragazzo, al quale la vita aveva già tolto tanto (i genitori e un fratello disabile) e al quale il calcio, che sembrava potergli restituire professionalmente almeno parte di quello che il destino gli aveva amaramente riservato, ha strappato invece il soffio vitale.

Le immagini di quel maledetto pomeriggio sono ancora stampate nella mente di tanti: Morosini era caduto lentamente, aveva cercato di rialzarsi tre volte, ma le ginocchia non lo hanno sorretto e nell’ultimo tentativo il ragazzo si è accasciato del tutto. Guardando e riguardando ancora quelle immagini, non ci restava che piangere. Pregare non è bastato, un cuore giovane è volato via, invece di continuare a battere forte come avrebbe dovuto. Vedere quelle immagini, quei suoi tentativi di rialzarsi, ripartire, correre comunque dietro al pallone e all’avversario, nonostante il malore lo avesse già colpito, all’improvviso, fa ancora male, malissimo. I pianti e la disperazione dei suoi compagni e dei suoi avversari, prima in campo, e poi nel reparto ospedaliero, i loro volti stravolti sfilati davanti a un centinaio di tifosi pescaresi, tutto aveva portato il calcio italiano a fermarsi. Piermario era caduto davanti alla sedia dove era seduto il figlio di Franco Mancini, ex portiere di A e collaboratore dell’allenatore abruzzese Zeman, ucciso da un infarto mentre era a casa sua due settimane prima.

Troppo duro il colpo, lancinante il dolore per un giovane che a 25 anni muore sul lavoro, mentre rincorreva un pallone, facendo un mestiere agognato dal 50% dei ragazzini italiani, e spesso associato all’icona del giovinotto viziato. Piermario Morosini era quanto di più lontano da questo stereotipo, era un ragazzo al quale la vita aveva già tolto troppo, e l’unico tentativo attraverso il quale possiamo provare a spiegarci questa fine senza ragione è che qualcuno, in un disegno superiore, abbia voluto ricongiungerlo alla sua famiglia. Le rilessioni nel tempo hanno lasciato spazio alle polemiche sui soccorsi, sui controlli medici, finanche alle indagini che hanno fatto il loro corso.
Oggi, a due anni di distanza, solo così ci possiamo consolare, Piermario: sei andato via mentre facevi quello che amavi, quello che ti faceva sentire in un gruppo, “in famiglia”, quella che ti era mancata troppo presto. E come in vita riuscivi con un sorriso a far capire agli altri che i veri problemi sono altri rispetto a una distorsione o una squalifica, svegliandoci per un attimo dal “sonno della mente” nel quale spesso piombiamo, per riaprirci gli occhi sulla vita. Ciao “Moro“, due anni dopo l’Italia non ti ha dimenticato.