Foto Fondazione Taras

Un paio di baffi e una capigliatura riccia. Anni ’70, in tutto. Erasmo Iacovone a Taranto, oggi, lo ritroviamo così. È così che lo raffigura la statua nei pressi dello stadio a lui intitolato. L’unica bandiera, come cantano i tifosi del Taranto quando ancora oggi scandiscono a voce alta, e col petto gonfio, quel nome che negli anni ’70 fece sognare un’intera città.

Iacovone non era solo un calciatore forte, un centravanti che oggi avremmo definito completo e moderno, ma che 40 anni fa si diceva solo “forte”. Iaco ha vissuto in una città che sognava un futuro diverso, e che era in espansione dal punto di vista urbanistico e soprattutto industriale. Una città che forse per qualche anno ha persino creduto di poter essere forte come quell’acciaio che produce, e di non dover piegare i propri sogni, che poi ha scoperto essere fatti di carta velina più che d’acciaio. Iaco ha vissuto una città bellissima che con il tempo si è persa sotto una nube densa e nera, coperta da un fumo maledettamente simile a quello che ogni giorno l’Ilva, che nel frattempo ha reso tristemente famosa Taranto, rilascia tra i due mari.

La storia di Iacovone è una di quelle che fanno innamorare. E lui, Erasmo, aveva fatto innamorare una città intera. Era partito dalla Serie D, nell’Omi Roma, poi la Triestina e un momento buio, prima di rinascere a Carpi. E conoscere l’amore, e la donna che sarebbe diventata madre di una figlia che lui non avrebbe mai conosciuto. Poi il Mantova ed il Taranto. Dove conosce l’amore per una maglia. E la voglia di portare una città intera in Serie A.

Taranto è una piazza calda. Folle d’amore, da sempre. Iacovone lo aveva capito, e l’aveva fatta innamorare con i gol. Ma era diventato col tempo qualcosa di più. Una bandiera. L’unica che Taranto abbia mai avuto, al netto anche di un futuro che sarebbe stato infausto. Quel 6 Febbraio di 37 anni fa di ritorno da uno spettacolo teatrale Iacovone trovò la morte in un incidente stradale, scontrandosi contro un uomo che scappava dalla Polizia. E lui, Iaco, non poté rifuggire al proprio destino. Era un lunedì, e il giorno prima aveva trovato due pali sul proprio cammino verso il gol. Taranto pianse un idolo, diventato con il tempo leggenda, che non ha ancora smesso di piangere. Quello delle foto in bianco e nero, dei racconti al bar. Quello che diventò l’eroe dei due mari, nel libro di Giuliano Pavone.

Volò in alto Iacovone. O andò chissà dove, rimanendo per sempre a Taranto. Nella città che ancora oggi non ha smesso di cantare che ha un’unica bandiera, “Iaco, Iaco, Iacovone…”, quasi 40 anni dopo. In alto, come il Taranto non ci andò più. Con quell’Alfa che spezzò la vita di un ragazzo di 25 anni e tutti i sogni calcistici di una città che arrivò a 6 punti dalla promozione, e perse il proprio trascinatore. Quel Iacovone che rimase in alto nella classifica cannonieri di Serie B nonostante non ci fosse più. Lui che veniva da Capracotta (Isernia), il secondo comune più in alto dell’Appennino. E che quando staccava sembrava volare. Per poi non tornare più, ma rimanere come una bandiera. Quella che sventola più in alto di tutto.