L’unica vera competizione di rugby seguita dagli Italiani
England v Italy - RBS Six Nations
E’ la kermesse rugbistica più amata dagli Italiani, il momento in cui ci riscopriamo tutti quanti amanti della palla ovale e a buon diritto, in quanto rappresenta a tutti gli effetti l’unica occasione in cui possiamo assistere alle prestazioni degli Azzurri, nel bene e nel male, a parte i test match di giugno e settembre, dove chiaramente la posta in palio non vale quella del Sei Nazioni. Ne è una prova il boom di ascolti per la partita tra Francia e Italia su DMAX – l’emittente televisiva che ha comprato i diritti televisivi del Sei Nazioni ndr -. Secondo un comunicato diffuso dal gruppo Discovery, il suddetto match ha totalizzato circa 811.000 telespettatori totali con ben il 6 % di share in simulcast su DMAX e Deejay TV (+ 27 % rispetto al 2015).

Il fermento del pre-partita e la festa del post-partita
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Dal clamore dei chiassosi pub di Dublino, ai cori dei centurioni romani all’Olimpico, ovunque e ogni qual volta ci sia una partita del Sei Nazioni sarà sempre una giornata di festa, al di là del risultato. Si ride, si scherza e si fa baccano con i rispettivi tifosi avversari fuori dallo stadio e sugli spalti, seguono poi due tempi da 40 minuti per sostenere ognuno la sua squadra in campo e un terzo per imitare il post-partita dei giocatori e per celebrare la festa, ed è il tempo preferito da molti, quello delle strette di mano e delle pacche sulle spalle, la soddisfazione più dolce dopo aver visto i nostri eroi darsele di santa ragione nel corso della gara.

Paese che vai.. usanza che trovi
Britain Scotland France Rugby Six Nations
Scozzesi in kilt, Inglesi vestiti da crociati, Irlandesi dalla barba rossa vestiti da folletti, Gallesi che indossano copricapi a forma di narciso (propriamente detti “Daffodil” o “Cenhinen”), Francesi travestiti da Asterix e Obelix e infine Italiani che vestono le gloriose loriche romane: saremmo anche tutti figli dello stesso continente e accomunati dalla medesima identità culturale, ma è altrettanto vero che ogni popolo è fiero delle proprie tradizioni e vale la pena riscoprirle in un’occasione di festa come il Sei Nazioni. E poi andiamo, quante volte vi sarà capitato di vedere adulti dipingersi la faccia e tornare bambini almeno per un giorno se non durante il Sei Nazioni?

La vicinanza geografica delle sei nazioni partecipanti al torneo
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A differenza del Rugby Championship in cui vi partecipano Australia, Sud Africa, Nuova Zelanda, Argentina, i paesi che si affrontano nel Sei Nazioni sono veramente vicini tra loro, qualcuno anche adiacente. Come se non bastasse, la consapevolezza di far parte di un’unica realtà chiamata Europa, sancita dal riconoscimento dell’UE, rende la distanza geografia ancor più ridotta dal punto di vista soggettivo. Tutto ciò non può che giovare ai tifosi più incalliti o ai viaggiatori più appassionati: entrambi hanno la possibilità di cogliere nel torneo anche un’occasione per far visita a varie capitali europee, nella fattispecie Dublino, Edimburgo, Cardiff, Londra e Parigi.

Antonio Raimondi e Vittorio Munari
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Antonio Raimondi e Vittorio Munari sono due icone del rugby italiano, le loro voci sgocciolano fuori dalla storia che hanno contribuito a formare, per quanto giovane, nella sua interezza. Due persone così diverse, uno grande e grosso, l’altro minuto, eppure ci sono pochi telecronisti che sanno infondere la passione per lo sport quanto loro. Non è soltanto una questione di accuratezza, ma di trasporto e di una conoscenza della pratica che va ben oltre il commento, perché il lavoro di un telecronista è anche quello di trasmettere emozioni, o forse soprattutto quello. Quello che mettono Munari e Raimondi nelle loro cronache è un misto di competenza enciclopedica ed esperienza di strada. Le loro telecronache, prima su Sky e oggi su DMAX, hanno fatto sì che il pubblico generalista si appassionasse a uno sport forse non facilissimo da capire, ma certamente bellissimo da seguire, rapendoci con i loro racconti e conquistandoci uno con la sua inconfondibile risata, l’altro con i suoi “munarismi”, perché lo sport lo fa tanto chi lo pratica quanto chi lo racconta.