Ma come parla? Le parole sono importanti!” E’ un frase pronunciata da Nanni Moretti in un suo celebre film e diventata ormai un vero e proprio cult del cinema italiano. In un’epoca dominata da Internet e dai Social Network, l’importanza della buona comunicazione, nella forma e nella cura di ogni suo minimo dettaglio, è fondamentale per tutto ciò che viene detto e raccontato, non solo quando si è di fronte ai più convenzionali mezzi di comunicazione ma persino nella vita quotidiana, perché i video in formato tascabile sono ovunque e da Facebook, insieme agli aggiornamenti di stato, possono partire anche le querele.

Le parole di Sacchi, pronunciate ieri sera in quel di Montecatini Terme a margine della consegna dei premi Maestrelli, erano quasi tutte sbagliate nella forma sebbene fossero parzialmente condivisibili nella sostanza: “L’Italia è ormai senza dignità né orgoglio perché fa giocare troppi stranieri anche nelle Primavere: nei nostri settori giovanili ci sono troppi giocatori di colore“. Ci risiamo, dopo Tavecchio anche l’ex ct della Nazionale cade nel fraintendimento razziale, in quella che possiamo definire ironicamente la maledizione degli Opti Poba.

Sacchi non è razzista, non lo è nemmeno Tavecchio. Essere personaggi pubblici però comporta un minimo di responsabilità, soprattutto nelle esternazioni collettive, e l’inadeguatezza delle parole pronunciate è direttamente proporzionale al numero di costruzioni fraseologiche delle successive e necessarie precisazioni: “Sono stato travisato, figuratevi se io sono razzista. Ho solo detto che ho visto una partita con una squadra che schierava 4 ragazzi di colore. La mia storia parla chiaro, ho sempre allenato squadre con diversi campioni di colore e ne ho fatti acquistare molti, sia a Milano che a Madrid. Volevo solo sottolineare che stiamo perdendo l’orgoglio e l’identità nazionale“, parola di Arrigo.

Volendo andare oltre l’orgoglio nazionalista del profeta di Fusignano, la sostanza del discorso, espresso nella stessa maldestra forza dialettica dell’attuale presidente federale, sottolinea che l’impoverimento del calcio italiano e della Nazionale passa da una gestione che preferisce un’economia di delocalizzazione agli investimenti interni, con conseguente mancanza di prospettive per i giovani talenti di casa nostra. Far crescere il calcio italiano, nell’era della globalizzazione e dell’estrema liberalizzazione dei confini internazionali, vuol dire cercare di investire nuovamente nel locale, sfruttando un potenziale interno tradizionalmente molto ricco.

Detto questo, sarebbe opportuno evitare certi strafalcioni soprattutto se involontari, perché l’immagine che arriva all’esterno, del nostro calcio e non solo, sta peggiorando parola dopo parola.