Chi è Arpad Weisz? E perché oggi, 27 gennaio giorno della Memoria delle vittime dell’Olocausto, ne parliamo? La sincerità è dire che fino a qualche anno fa, in pochi lo conoscevano. E di quei pochi nessuno conosceva la sua storia. Oggi è invece un esempio vivido di quanto il dramma di quegli anni abbia coinvolto anche lo sport, anche il calcio. Tutto questo grazie alle ricerche e a un libro del direttore del Guerin Sportivo, Matteo Marani: “Dallo scudetto ad Auschwitz” (ed. Aliberti), successivamente trasposto in tv da Federico Buffa, che non ha bisogno di presentazioni ma che in questi casi può benissimo essere definito un aedo, per come ha raccontato questa storia.

La storia di Weisz è quella di un ebreo-ungherese nato per allenare. Negli anni ’20 a Buda-Pest (parte di collina e parte pianeggiante) è presente una vibrante comunità ebraica. Arpad è un bravo calciatore, è uno dei gioielli del Törekvés, la terza squadra della città che si insinuava nel duopolio Ferençvaros-Mtk. Törekvés, che in ungherese significa “sogno ad occhi aperti”. Insieme a lui anche Hirzer, il centravanti che sarà il primo straniero alla corte degli Agnelli, alla Juve. Nell’Ungheria che parteciperà alle Olimpiadi di Parigi c’è anche Bela Guttman, che i tifosi del Benfica conoscono bene; quella squadra verrà ricordata come la squadra dell’ammutinamento. A livello dirigenziale infatti, stavano cominciando le prime ingerenze legate al vento che purtroppo stava cambiando in Europa per la razza ebraica.

Nel destino di Arpad c’è l’Italia: viene notato dai dirigenti del Padova durante una partita della sua nazionale contro gli azzurri, a Genova. Gli viene offerto un contratto e su di lui mette gli occhi l’Inter. Poi una parentesi un po’ misteriosa in Uruguay chiude di fatto la sua carriera da giocatore. Torna in Italia, torna a Milano: l’Inter lo chiama per allenare la squadra. La sua Inter è quella di Fulvio Bernardini. Con i giovani della primavera si allena un ragazzo gracile ma dal talento purissimo: il Balilla, Giuseppe “Peppino” Meazza. Arpad Weisz lo lancerà nel calcio che conta. E farà vincere ai nerazzurri il primo campionato a girone unico: è il 1930, Arpad ha 34 anni. Nessuno, d’ora in avanti, riuscirà a vincere uno scudetto così giovane. Dall’Inter al Bari, che porta alla salvezza nello spareggio contro il Bologna. È lì che il presidente Dall’Ara si innamora calcisticamente di lui. Bologna è la città in cui Arpad crescerà i suoi figli, Roberto e Clara. Sì, perché nel frattempo si è sposato con Ilona: a Bologna abitano a pochi passi dallo stadio, uno dei più grandi d’Europa, il fiore all’occhiello di quella città, con la nike alata che troneggia. Il teatro perfetto per una grande squadra: gli uruguagi Fedullo, Andreolo e Sansone e gli italiani Schiavio e Reguzzoni. Arpad Weisz fonde questi due caratteri e nell’ultima partita contro la Triestina (3-0) il Bologna è Campione d’Italia. È il 1936 e l’anno dopo sarà bis. Ma non è finita qui: esporta la sua creatura in Europa e vince a Parigi il Torneo dell’Esposizione Universale, dando una lezione ai maestri inglesi del Chelsea: 4-1. Come una Champions League. No, non è un sogno questo. Weisz è il migliore allenatore dell’epoca.

La luce però è destinata ad essere spenta dal buio che sta per avvolgere l’Europa. La discriminazione diventa legge: gli ebrei stranieri che sono in Italia almeno dal 1919 devono lasciare il paese: anche Arpad e la sua famiglia. Il destino lo porta in Olanda, ancora e per poco immune da quel clima: allenerà il Dordrecht, mediocre squadra di serie A (sono studenti) che però porterà a salvarsi e a due storici quinti posti, con annesse vittorie contro il grande Feyenord. Un altro sogno ad occhi aperti. Ma i tedeschi arrivano anche ad Amsterdam. Il destino è segnato, dal suo cappotto con una grande stella, purtroppo non la stella di uno scudetto; dalla J di Juden presente nel passaporto. È costretto a spiare gli allenamenti della sua squadra da una fessura dello stadio. È il 1942, la Gestapo bussa una mattina di agosto e li porta nel campo di Westerbork. Hitler ha varato la soluzione finale: la moglie e i figli sono destinati al mattatoio di Birchenau. Non sono utili ai lavori forzati, lì moriranno. Le braccia di Arpad possono invece servire, per questo lui è diretto a Cosel, un campo di lavoro. Resisterà 16 mesi: e già questo è un miracolo, con la mente e il cuore rivolti al destino della sua famiglia e il corpo sfiancato. Ma Arpad di lotte ne aveva vissute tante, in campo. A partire dal Törekvés, quel sogno a occhi aperti che ad Auschwitz si sono chiusi il 31 gennaio 1944. La sua storia però può aprire i nostri di occhi: senza mai più chiuderli, per ricordarne questa e altre mille e poter sognare che non si ripetano mai più.