Pensate ad un Italia da ricostruire, distrutta e divisa dalla seconda guerra mondiale prima e dalla guerra civile poi. Un’Italia che si rialza tra le macerie, cercando di dimenticare errori e orrori del fascismo, l’aborto della Repubblica di Salò, la Resistenza e i partigiani. Pensate ad un’Italia nella quale qualche anno prima sono sbarcati gli americani, per liberare la penisola dal fascismo. Erano sbarcati in Sicilia. Alcuni di loro, la maggiorparte probabilmente, erano di colore. Parlavano una lingua incomprensibile, erano ben dotati. Risalirono tutta l’Italia, aiutandola a liberarsi. Tra di loro anche Elliott Van Zandt, coloured anche lui, ufficiale di fanteria della U.S. Army arrivato in Italia nel ’43.
Arrivò in Italia che aveva 28 anni, era diplomato in educazione fisica alla Tuskegee University in Alabama. E si diceva che anche nei momenti liberi passati in Italia dava dimostrazioni a connazionali, e soprattutto italiani, in alcuni sport tipici americani, come il basket e il rugby. Nel 1947, a due anni dalla fine della guerra, fu scelto come coach della nazionale italiana di pallacanestro. Uno sport che in Italia era ancora minoritario, poco conosciuto. Ed era praticato a livelli primitivi. Eelliott non era uno che parlava tanto, ma fu celebre la sua affermazione “foundamentals!” (trad. “fondamentali!”) quando vide giocare gli italiani che gli erano stati affidati. Mancavano i fondamentali. Il tiro, il passaggio. Non era quello il modo di farli. In Italia non esistevano i fondamentali per poter giocare a pallacanestro. A basket, come diceva lui. Rivoluzionò il mondo del basket italiano rimanendo per diversi anni sulla panchina italiana. 33 vittorie su 45 partite con la nazionale azzurra, e agli Europei del 1951 l’Italia arrivò quinta dopo aver fallito alle precedenti olimpiadi.
Poi fu fatto fuori. Capì presto cos’è l’Italia, anche nello sport. Tradito dai propri giocatori. Ma non ne fece un dramma. Amava l’Italia, era la sua seconda patria. Viveva a Firenze, ed era innamorato del patrimonio artistico fiorentino. Chiamò sua figlia Fiorenza, in onore della città toscana che l’aveva adottato dopo la guerra. Andò in Turchia ad insegnare i fondamentali del basket, poi tornò in Italia. Gli mancava troppo il Belpaese. Insegnò qualcosa anche sul Baseball, allenò il Cus Milano. Vinse un campionato anche qui. Poi una breve esperienza nel calcio, al Milan. La Milano sportiva iniziava ad apprezzare l’uomo silenzioso venuto dall’America ad insegnare lo sport. Fece il preparatore atletico al Milan, vinse uno scudetto. Poi un’intuizione, uno schema del basket applicato al calcio italiano: il “velo smarcante”. Piacque a tutti.
Una malattia lo portò via presto, troppo presto. Perché probabilmente aveva ancora tanto da insegnare al nostro sport. Quegli insegnamenti per i quali l’Italia ha sempre avuto riconoscenza, istituendo anche un premio cestistico in suo onore. Non tornò mai in America. Ci provò, quando si accorse che stava per morire. Voleva provare un trapianto di rene a Chicago, morì sul volo che lo stava riportando a casa sua. Dopo averci insegnato, per qualche tempo, lo Sport.