Il mondo sembrava essersi dimenticato di quello spicchio di terra bagnato dall’Atlantico. La stagione estiva era da poco finita e i turisti si erano lasciati risucchiare dalle loro routine. Come fanno le onde dopo essersi infrante sulla battigia, lentamente, con indifferenza e senza far rumore si erano rimescolati con la vita di sempre. La spiaggia era tornata ad essere territorio esclusivo dei bambini del villaggio. Loro, il cielo, il mare e l’Argentina dietro le spalle.

Il vecchio Franco affacciato alla finestra seguiva con lo sguardo il nipote ma ogni tanto l’occhio si perdeva in quella striscia tremolante che il sole disegnava sull’acqua sul calar della sera. Gli tornava in mente l’Italia, i suoi tramonti e gli odori della cucina mediterranea. Aveva abbandonato da qualche anno lo stivale per finire i suoi giorni in Sudamerica, insieme a suo figlio e al piccolo Daniel.
La grande passione per il calcio univa questi due paesi così lontani, ma così maledettamente affini. Scese giù per le scale e s’incamminò verso la spiaggia. La brezza marina e lo sciabordio delle onde ovattavano le grida dei ragazzini che correvano dietro al pallone. Affondò i piedi nella sabbia fresca e un misto di benessere e libertà lo invase.
Chiuse gli occhi e scese in campo alle spalle di suo nipote. Non aveva mai giocato a calcio, ma era affascinato dal ruolo di libero. Se ne innamorò ascoltando i radiocronisti accompagnare le sortite offensive o rimarcare le grandi chiusure sul centravanti avversario.
Ricordava ancora quando saltò fuori quel fenomeno di Beckenbauer. Il Kaiser seppe dare un’interpretazione senza eguali al ruolo di libero sfruttando le sue doti eclettiche. Fu il leader indiscusso della Germania e del Bayern Monaco, giocatore carismatico e di notevole intelligenza tattica, vinse tutto ciò che c’era da vincere, compreso il Pallone d’Oro nel 1972.
Un soffio di vento improvviso scompigliò ancor più i capelli arruffati del vecchio Franco. Così s’immaginò di correre a gran velocità e fermare in tackle l’attaccante avversario, come era solito fare un altro Franco, anche lui di professione ‘libero’: Baresi, ‘il piscinin’ (come fu ribattezzato da Rivera e Liedholm) che alzò al cielo tre Coppe dei Campioni. Indimenticabili le sue lacrime a Pasadena in quella maledetta finale contro il Brasile nel ’94, come leggendaria resterà quella maglia #6 fuori dai calzoncini e quel braccio alzato per chiamare il fuorigioco.
Baresi fu il degno erede di un altro formidabile libero della storia del calcio. Gli venne un groppo in gola ricordando Gaetano Scirea, campione del mondo a Spagna ’82. Classe, eleganza, correttezza (mai espulso in carriera) e una straordinaria sapienza tattica al servizio della squadra: un signore del calcio che salutò tutti troppo presto.
Delle grida lo distolsero dai suoi pensieri. Aprì gli occhi: era suo nipote che urlava ai compagni di squadra. Era un sanguigno. Comandava lui. Non voleva perdere mai. D’altronde si chiamava Daniel, come quel libero nato in una sperduta cittadina della Pampa e diventato campione del mondo a Buenos Aires: Passarella.

Il vecchio Franco fissò la linea dell’orizzonte e, con la risolutezza di un libero che dà ordini alla squadra, mista alla bontà di un nonno, richiamò il piccolo Daniel.
“E’ solo un gioco” gli disse.
Ma in quello spicchio di terra nessuno c’avrebbe mai creduto.