Quando arriva il tempo di “valutare” un anno, difficilmente c’è lo spazio per le sfumature, per i giudizi a metà, per “se” e per i “forse”: o bianco o nero, o lo si salva o lo si getta via, lo si benedice o lo si maledice. O tutto o niente. Una regola a tutti gli effetti con, ovviamente, le sue eccezioni. E l’eccezione si manifesta nel momento in cui nel giorno di Santo Stefano, appesantito dai pranzi-maratona e con i libri che mi osservano minacciosi, decido di tracciare un bilancio del 2014 di Antonio Conte. Per carità, terrò conto del fatto che io sia stato un semplice osservatore esterno degli eventi e mi limiterò dunque a darne una mia visione. E’ anche vero però che se certi retroscena non ci sarà dato saperli, gli eventi in sé e certe dichiarazioni restano. Fatta questa lunga e spero utile premessa, vi spiego perché il 2014 di Conte è stato a due facce: semplicemente perché a un certo punto c’è stato da prendere un bivio, imboccare una direzione. E l’attuale CT, personalissima opinione, ha seguito la strada sbagliata.

Va compiuto però un piccolo passo indietro al 2013: la rovinosa e dolorosa eliminazione dalla Champions con la Juve nella notte di Istanbul. Col senno di poi quella bufera di neve si rivelerà il punto di partenza della bufera non atmosferica ma emotiva che si consumerà in una giornata di luglio.
Il 2014 però comincia alla grande, la Juve schianta la Roma, si conferma contro l’Inter, solo per ricordare due partite. Anche con il “peso” dell’Europa League Conte riesce a tenere costantemente a distanza di sicurezza i giallorossi. L’unica sconfitta arriva a Napoli. Ma è fisiologica e quasi indolore, perché non pregiudicherà il raggiungimento della quota storica in campionato, i 102 punti. Alle vittorie si alternano però frasi sibilline, allusioni: ogni intervista si conclude con la domanda sul suo futuro alla Juve e la risposta non è mai convincente. Conte sa già che a fine stagione dovrà mettersi al tavolo e parlare con Andrea Agnelli: gli scudetti non bastano più, l’ambiente vuole il salto di qualità e lui pretende una rosa all’altezza per garantirlo. Sedersi al tavolo, parlarsi schiettamente: farlo con una Europa League in bacheca avrebbe drasticamente cambiato le cose. E invece il sogno della finale da giocare in casa si infrange nella pioggia di maggio contro il Benfica. Se possibile, ancora peggio che a Istanbul. A Conte non vanno giù i mugugni di un ambiente abituato bene e che paradossalmente non si accontenta del terzo scudetto consecutivo raggiunto a passo di carica, con un andamento mostruoso. Per questo il pomeriggio della premiazione somiglia sempre più a un addio, con le lacrime della moglie Elisabetta e quella maglia che recita più o meno così: “102. C’è chi la storia la legge e c’è chi la scrive”. Dopo la sbornia però si torna alla realtà: Conte incontra Agnelli e Marotta. Il 19 maggio il tweet della Juventus è eloquente e non lascia spazio a dubbi: “Stagione 2014/15: allenatore Antonio Conte.” I tifosi possono andare sereni in vacanza e i giocatori al Mondiale. Tanto rumore per nulla.

E invece è solo la quiete prima della tempesta. Il mercato non convince, Cuadrado non arriva, Iturbe scappa: il 15 luglio, poche ore dopo l’inizio del ritiro, Conte decide di lasciare la Juve. Dice di non avere più stimoli. La prima reazione generale è l’incredulità, l’essere stati vittima di un grande scherzo. Invece no, il video su YouTube è studiato nei minimi dettagli, la decisione non è stata improvvisa quanto la sua comunicazione. Perché non subito allora? Conte covava la speranza di essere accontentato e ha lasciato un’ultima possibilità ad Agnelli e Marotta? O è arrivato a un punto di non ritorno proprio col presidente? Tra due personalità così forti, in un momento di crisi, ne esce vincitrice solo una. Conte è salutato con tristezza e nostalgia dai giocatori e dai tifosi, molti dei quali si sentono però anche traditi. Altri danno la colpa alla società che si è lasciata sfuggire il valore aggiunto più importante. E lo scetticismo dilaga quando viene annunciato il nome del successore. Le strade di Conte e della Juve, finora un tutt’uno, si separano. Per sempre? Chissà.

Eccolo, il bivio. Poche settimane dopo diventerà il CT della Nazionale. Tra polemiche sul suo stipendio e la sua poca coerenza, visto che verso la federazione non era mai stato tenero. Ma alla conferenza di presentazione sembra un’altra persona. Non nomina mai la Juve, tre anni sembrano cancellati. L’avvio in azzurro però è convincente, i giocatori che non lo conoscevano sono entusiasti e i risultati gli danno ragione. Conte non lo dice, ma il suo sogno è conquistare l’Europeo del 2016. Proprio quell’Europa che lo ha tradito con la Juve vuole prendersela in azzurro, avvenimento che non si verifica dal 1968. E per farlo serve il sostegno di tutti, club compresi. Bisogna remare tutti da una parte. Un sostegno che il CT non sente e per questo sbotta. Le vittorie fin qui ottenute sono forse da attribuire più alla pochezza degli avversari che alla forza dell’Italia. Infatti col primo avversario “serio”, la Croazia di Modric, il pari è salutato addirittura con entusiasmo.

Qualche giorno dopo Conte si sfoga: si sente solo, accerchiato. Si era illuso di qualcosa che adesso non vede più. Si è reso forse conto che vincere l’Europeo è una velleità più che un obiettivo. E arrivarci col “sudore, lavoro, fatica”, questo è il suo mantra, è un’impresa più che ardua. Vorrebbe vedere più spesso i suoi giocatori, gli pesa la mancanza dell’allenamento quotidiano. Per questo adesso è lì a lottare per uno stage in più. Un po’ poco per chi prima lottava per obiettivi meno diplomatici. Le sue esigenze però non collimano con quelle dei club: ironia della sorte, soprattutto con quelle della “sua” Juve, una delle poche (l’unica tra le grandi) che non ha ancora visitato da CT. Forse perché in fondo al cuore sa di aver commesso un errore, forse perché ha capito che qualcosa da dare quella squadra ancora ce l’aveva, anche in Europa. Forse perché fa male pensare che, mentre lui stava sbattendosi per ottenere uno stage in più, c’era un sorteggio che accoppiava i bianconeri al Borussia Dortmund, quella squadra che anni prima gli aveva inflitto probabilmente la delusione più dolorosa e inaspettata della sua carriera da calciatore. Non sarà sua l’opportunità della vendetta sportiva, né quella del duello col mago Klopp nell’inferno del Westfalen Stadion. Perché in quello stesso periodo forse allenerà una Nazionale mutilata in uno stage un po’ fine a se stesso. Ma l’ha deciso lui, di fronte a quel bivio. E solo il tempo dirà se ha fatto bene o no. Il 2014 però la sua sentenza l’ha già espressa.