«Two Molinaris, there’s only two Molinaris». Così cantavano, sull’aria di Guantanamera, i tifosi del team Europe, portando in trionfo Dodo Molinari, che aveva appena firmato il mezzo punto che metteva la parola fine alla 38esima edizione della Ryder Cup, riportando nel vecchio continente l’ambitissimo trofeo. Pochi allora avrebbero scommesso che 22 anni dopo il torneo di golf più seguito e probabilmente più bello sarebbe arrivato in Italia all’ombra del Colosseo sui green del Marco Simone Golf & Country Club.
La Ryder Cup sta al golf come il wrestling sta alla boxe. È, in un certo senso, una corruzione popolare di un gioco che nonostante tutto resta snob e a cui, diamoci la verità, non fa difetto una certa dose di puzza sotto il naso. In Ryder Cup invece il golf si libera dei paludati retaggi della tradizione british diventando un gioco bellissimo, compresa la possibilità per il pubblico presente di infrangere la regola dell’assoluto silenzio, tifando per i loro beniamini o fischiando gli avversari. Poi se l’avversario si chiama Ian Poulter che ti guarda con gli occhi spiritati perché ha appena compiuto un’impresa pazzesca guidando l’Europa all’incredibile vittoria di Medinah nel 2012, allora quei fischi si possono addirittura trasformare in boati di scherno.
Ovviamente tutto ciò si traduce in uno spettacolo che fa della Ryder uno degli eventi sportivi più seguiti di sempre costruito sulla drammaturgia della sfida tra Usa e Europa e naturalmente sui colpi dei fuoriclasse del golf radunati tutti insieme per tre giorni.
La storia dell’Italia in Ryder Cup è tutto sommato ancora da scrivere. La competizione nata nel 1927 inizialmente prevedeva una sfida tra Usa e Inghilterra. Ma i golfisti di “Sua Maestà” dopo aver vinto la miseria di due coppe in 21 edizioni si resero ben presto conto che serviva una iniezione di sangue europeo, anzi spagnolo per la precisione. Fu infatti Severiano Ballesteros che guidò il team Europe alla vittoria della coppa nel 1985 al The Belfry, trasformando in una competizione vera e propria un torneo che fino ad allora per gli americani era stata una allegra passeggiata nei boschi.
Il primo italiano a metter piede in Ryder fu Costantino Rocca, che ha giocato tre edizioni collezionando nel 1997 a Valderrama, sotto gli occhi compiaciuti di Ballestreros in veste di capitano, il prezioso scalpo di un ancora imberbe Tiger Woods, battendolo nel singolo dell’ultima giornata. Queste gesta hanno sicuramente contribuito a spianare la strada al golf italiano, che con i fratelli Edoardo e Francesco Molinari prima e Matteo Manassero poi, è entrato nel golf che conta centrando risultati di grande prestigio.
Adesso per il golf italiano si apre una «nuova era» come si è affrettato a dichiarare il presidente federale Franco Chimenti subito dopo la notizia dell’assegnazione a Roma dell’edizione 2022. Certamente il risultato è storico considerando che prima di Roma soltanto Valderrama in Spagna nel 1997 e Parigi nel 2018 sono le uniche città non britanniche che si sono fregiate (si fregeranno nel caso di Parigi) dell’onore di ospitare una Ryder.
Per l’Italia la sfida però è doppia perché a parte l’innegabile fascino di Roma (in alcuni punti del percorso si può scorgere perfino la cupola di San Pietro) bisogna rendere lo stivale a misura di golf. A cominciare dallo sforzo immane che la federazione dovrà fare, garantendo all’Italian Open un montepremi di 7 milioni di euro per 11 anni (oggi è di solo 1,5 milioni di euro) secondo quanto riporta il sito rydercup.com.
Il problema maggiore resta però creare una cultura golfistica in un Paese che ne è praticamente priva a partire dalle politiche elitarie e miopi attuate dai circoli, che nonostante gli sforzi fatti dalla federazione in termini di ampliamento del numero della base di praticanti, preferiscono la supposta esclusività di determinate fasce sociali, piuttosto che favorire l’ingresso di nuovi giocatori.
Parafrasando il celebre detto di Massimo D’Azeglio: fatto il golf adesso bisogna fare i golfisti.