Prima premessa: a metà secondo tempo del primo atto dei Mondiali 2014 credevo di titolare questo pezzo così: “È morto O Brasil”. Poi ha vinto, senza convincere, e il titolo è diventato un più sottile, ma tagliente “È tutto qui O Brasil?”. Seconda premessa: nonostante il titolo sia cambiato, un dato oggettivo resta. Il Brasile, anzi, “O Brasil” (come veniva chiamato negli anni d’oro), è morto per davvero. Non è morto oggi. Probabilmente è scomparso nel 2006, quando cincischiò per mezza competizione e fu sbattuto fuori da una chirurgica Francia, poi perdente in finale contro Materazzi & Co.
Ha steccato nel 2010, dove fu l’Olanda – la dolce e bella perdente di sempre – a schiaffeggiare la Seleçao. E non è detto che stecchi quest’anno. Gioca in casa, ha entusiasmo e quel fattore ambientale che fa pendere la bilancia dalla parte loro.
Ma questo non è il vero Brasile. Il vero Brasile, quello che ha colonizzato il calcio di fantasia e di spettacolo, è quello capace di far giocare quattro numeri dieci contemporaneamente. È quello capace di formulare un 4-2-2-2 tanto inverosimile, quanto emozionante da vedere. Un rullo compressore. Oggi questo Brasile non ha quattro numeri dieci, non ha più calciatori da Brasile. Sarà colpa di calciatori europeizzati, ugualmente efficaci, ma effettivamente meno belli da vedere. Chissà. Ma non sarà un caso, forse, che a decidere la sfida di questa sera siano stati due “numeri dieci” diversi, ma pur sempre “dieci”. Come Neymar (foto Getty Images) e Oscar, stilisticamente magari non perfetti (e aiutati da Pletikosa) ma ugualmente decisivi. È cambiato lo spartito, ma non è una novità. C’è la variante di esperienza Fred, più fisico che tecnico, la rapidità che dal centro sfocia sulle fasce di Bernard e Ramires, freschi rincalzi, e il contenimento del tandem Luiz Gustavo-Paulinho (a proposito: cosa ha Hernanes meno di questi undici?).
Il Brasile, con Ronaldinho e Kakà, ha terminato la sua genealogia. Ha dovuto abbandonare un attacco tetrarchico, abbandonandosi ad un nuovo tipo di concezione calcistica lontana dalla temuta nazionale verdeoro di sempre. Questo Brasile è un ottimo gruppo, formato da grandi giocatori. Ma non è imbattibile. Lo ha dimostrato una Croazia dai piedi raffinati, condotta dalle geometrie di Modric e Rakitic, ma probabilmente troppo sterile in un attacco impreciso che evidenzia netto divario tra i reparti. Il resto lo ha fatto Pletikosa, che fa rimpiangere i portieri volanti del calcetto, e Nishimura, arbitro incantato dal tuffo poco credibile di Fred (che poi ringrazia il cielo per cotanta grazia) e fischia il rigore che fa da spartiacque al match. Sino a quel momento i biancorossi stavano gestendo un pareggio meritato. Senza alcuna difficoltà. E nonostante il 2-2 sembrasse ad un passo, è arrivata anche la beffa che ha complicato la vita al team di Kovac.
Il Brasile esulta, ma a bassa voce. Deve pedalare, ha molto su cui riflettere e lavorare. “O Brasil” è morto, ma “il Brasile” ha ancora speranze di restare a galla, sistemare il gioco con alcune correzioni e poi realizzare l’unico sogno di una Nazione: rincorrere la sesta a casa propria.