Nell’immaginario collettivo il concetto di fuga spesso assume valenza negativa: un gesto vile, una rinuncia ad affrontare responsabilità e avversità del mondo reale.
Per Leo la fuga talvolta era l’unico mezzo per sopravvivere in quella realtà maledettamente identica a quella che Pasolini dipingeva in “Ragazzi di vita“. Se l’arrangiarsi è un’arte, Leo, dodici anni, una famiglia disgraziata alle spalle e un’inquietudine chiamata futuro, ogni mattina di quella torrida estate era costretto a vestire i panni dell’artista.
Aveva provato con il calcio a sovvertire quella sua misera condizione; era svelto di gambe ma il tocco di palla non era granché, così l’unica aspirazione che gli era rimasta era quella di essere il ‘pischello‘ più veloce del quartiere.

Quella mattina andò al mercato per raccattare su qualcosa da mangiare. Non che morisse di fame, ma in casa il cibo non abbondava di certo. Così ogni tanto s’improvvisava piccolo ladruncolo; quando qualche bancarellaro lo coglieva nel fatto, Leo se la dava a gambe mescolandosi tra la folla e scomparendo poi tra i vicoli. Era imprendibile.
Mentre procedeva tra la calca rifletté sulla sua grama esistenza e maledì il cielo per non avergli dato un po’ di talento.
“Sarei stato una formidabile ala destra” pensò.

Suo padre, interista, gli parlava sempre di Jair, quell’ala destra dal dribbling mortifero che qualche anno prima aveva segnato in finale di Coppa dei Campioni contro il Benfica di Eusebio. In casa era guerra aperta con il nonno, tifoso rossonero, che invece sosteneva che la più grande ala destra in circolazione fosse Kurt Hamrin, detto l'”uccellino”.
Ma a quei tempi Leo stravedeva soltanto per il “poeta del gol”, quel Claudio Sala che sarebbe poi diventato campione d’Italia col Torino nel 1976. Era uno dei maggiori interpreti di quel calcio improvvisato fatto di fantasia e dribbling, degno erede dell’altra indimenticabile ala destra granata, Gigi Meroni.
Leo ricordava quel tragico giorno d’ottobre quando la “farfalla granata” volò via per sempre lasciando un dolore incolmabile nel cuore di tanti appassionati di calcio. A scuola non si parlava d’altro. Qualche tempo dopo sfogliando una rivista s’imbatté in una foto di Meroni e accanto lesse il commento di un certo Brera: “Era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”. Non capì cosa volessero dire quelle parole, ma intuì che quel numero 7 non era uno come gli altri. Questo gli bastò per provarne profonda ammirazione.

Leo avvertiva un leggero languore; in lontananza vide dei tavoli pieni di frutta e con sguardo furtivo s’avvicinò alla preda con indifferenza. Il venditore era di spalle; Leo andò per prendere un casco di banane, ma l’omaccione si voltò e lo colse in fragrante. Urlò per attirare l’attenzione degli astanti ma Leo già stava scappando con tanto di bottino. Un sorriso velato cominciò a comparirgli sul viso man mano che s’allontanava. Quando fuggiva veloce come il vento dopo aver rubato, pensava a Manè Garrincha, la più grande ala destra di tutti i tempi. Era cresciuto come un selvaggio, era affetto da leggero strabismo, aveva la spina dorsale deformata e una gamba più lunga dell’altra di sei centimetri. Eppure il suo difetto divenne il punto di forza, la finta con la gamba più corta divenne leggendaria: era un tripudio di dribbling, scatti, rabone e tunnel.
Garrincha fu uno scherzo della Natura che strabiliò il mondo, incarnava la speranza dei bambini che vivevano di stenti.

Leo si fermò per prendere fiato. Non c’era nessuno che lo inseguiva. I disperati avevano vinto ancora.