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Rubin Carter, il pugile americano noto anche per essere stato al centro di una famosa controversia giudiziaria, si è spento a Toronto, all’età di 76 anni. L’Hurricane della boxe fu sul ring dal 1961 al 1966 con la specialità dei pesi medi. Riuscì a battere, tra gli altri, anche il grande Emile Griffith.

Tuttavia, la sua celebrità è legata, oltre alle vittorie da sportivo, anche alle vicenda giudiziarie che lo hanno coinvolto. Infatti, Rubin Carter nel 1966 venne accusato di un triplice omicidio in seguito ad una sparatoria in un locale del New Jersey. Fu dapprima condannato a due ergastoli. L’America si divise, però la maggior parte dell’opinione pubblica si schierò dalla parte del campione di boxe, affermando che l’accusa era fondata esclusivamente su motivi razziali.

Questo aspetto permise a Carter di divenire, in breve tempo, il simbolo della lotta alle discriminazioni razziali. Molto più tardi, nel 1985, venne scarcerato e due anni dopo vennero meno, in maniera ufficiale, tutte le accuse a suo carico. Il pugile dunque passò quasi vent’anni in galera per un errore giudiziario, anche se, a tal proposito, non c’è mai stata unanimità di giudizio.

La sua storia ha ispirato registi e musicisti: nel 1975 Bob Dylan dedicò al campione la celebre canzone dal titolo “Hurricane“, nella quale si poneva a favore della sua innocenza; la vicenda approdò pure al cinema, con l’interpretazione di Denzel Washington.

La vita di Rubin Carter è stata tutt’altro che semplice sin dall’adolescenza, dato che all’età di dodici anni venne mandato in riformatorio per aggressione. Nel 1954 si arruolò nell’esercito, operando in seguito nella Germania Ovest, sino ad essere congedato per disonore a seguito di una rissa. Di lì a poco avrebbe conosciuto la detenzione in carcere, a causa di una serie di scippi.

Dopo queste vicissitudini diede inizio alle propria carriera di pugile, forse speranzoso di buttarsi il passato difficile alle spalle, ignaro che, pochi anni più tardi, sarebbe nuovamente andato incontro a problemi con la giustizia, anche più gravi e pesanti dei precedenti. L’ultimo periodo della sua esistenza è stato caratterizzato dalla malattia, un cancro alla prostata. Ad assisterlo fino alla fine John Artis, suo presunto complice nel massacro che gli costò il ventennio in galera.