Diciamocelo pure, Cesare. Il grande allenatore è colui che cambia qualcosa quando la tempesta non è ancora sui capi dei propri calciatori, ma quando qualche piccola nube si intravede appena all’orizzonte: in caso contrario, persevera e rischia di far seguire a bei sorrisi dei capitomboli quasi storici, come quello rimediato ieri nella fornace di Recife dall’Italia contro Costarica. Tutto troppo facile per i centro-americani di Pinto, impegnati a giocare come il topo con il gatto, tenendo il formaggio tra i guantoni di Keylor Navas e sfuggendo alle grinfie azzurre tenendo agili leve a ritmi troppo alti per le pesanti, pesantissime gambe di De Rossi e compagni. Eppure su questo ko, che una classifica inattesa e un “andamento lento” non rendono fatale per l’Italia, c’è anche la mano di Cesare Prandelli.
Se il TikItalia era un’idea vincente contro lo slegato centrocampo inglese, contro Ruiz e i suoi connazionali la tattica non ha pagato: perché, contro una squadra dinamica e con cinque difensori, riproporre un modulo agile per giocare in ripartenza-cosa impossibile a corto di fiato- e non uno schema atto ad aggredire l’avversario e prenderlo d’infilata? Perché Immobile, configurato come il “nuovo Schillaci”, si accontenta di un lungo riscaldamento? Perché Thiago Motta e il suo cammino da “walking dead” in mediana? Perché accorciare i tempi su Buffon, con Sirigu in forma e in fiducia? Perché siamo condannati a giocare senza un terzino mancino di ruolo, adattando questa volta Darmian e poi proponendo un Abate privo di spazi e ritmo partita? Perché non pensare a Bonucci come regista arretrato sfoltendo la mediana? Perché partire con il 4-5-1, terminando con il 4-2-4 ma restando inoffensivi? Evitiamo la dietrologia, i Rossi “no” e gli Insigne “ sì”, i Florenzi “a casa” e gli Aquilani “in lista”. In questa Italia c’è del buono, tanto, ma occorre (ri)cavarlo fuori in 100 ore. Caro Cesare, il dado sembra tratto. O si cambia o si muore. Al di là del Rubicone c’è l’Uruguay, quali legionari sceglierai?